La pandemia da Covid-19 ha avuto un grande impatto sull'organizzazione del lavoro per tante filiere produttive.
Se le aziende più penalizzate sono state quelle dei settori del commercio, dei servizi alla persona, del turismo e dell'intrattenimento, costrette a chiudere le proprie sedi o ridurre drasticamente la presenza dei lavoratori nella produzione, una sorte differente è toccata alle aziende di telecomunicazioni, nella fattispecie i call center, i quali invece hanno trovato nella remotizzazione delle attività una valida alternativa alla postazione in ufficio.
Tale remotizzazione non corrisponde a un vero e proprio smart working (disciplinato da una precisa legge), ma è stata dettata esclusivamente dallo stato di emergenza che permane da quasi due anni e che si protrarrà almeno fino al 31 dicembre 2021.
Se il lavoro da casa per un lato ha agevolato la conciliazione vita/lavoro, dall'altro ha permesso alle aziende di ridurre i costi per infrastrutture, energia, refezione etc. ed in alcuni casi addirittura di aumentare la produttività.
L’associazione datoriale Asstel (Confindustria) ribadisce a più riprese che il lavoro smart sarà il futuro e che la soluzione “ibrida” rappresenta una sintesi perfetta per non perdere i vantaggi acquisiti durante questi due anni.
Tuttavia, mentre per le grandi aziende di Telecomunicazioni alla base esistono già degli accordi sindacali che permetteranno l'utilizzo dello smartworking quando il pericolo pandemico sarà scongiurato, la situazione è ben diversa nella filiera dei call center.
Come Segretario Generale della Uilcom Sardegna ritengo necessario un tavolo di confronto con i più grandi gruppi di call center operanti nel territorio sardo, affinchè tramite una corretta negoziazione si possano definire accordi che disciplinino in maniera definitiva le nuove dinamiche che questa modalità di lavoro sta generando.